ANTEPRIMA: leggi i primi capitoli di "CONFLITTI", 2° libro della serie SISTERS di Elena Taroni Dardi.



Dopo il grande successo avuto lo scorso anno con "RIFLESSI" (QUI potete leggere la nostra recensione in anteprima), Elena Taroni Dardi torna con "CONFLITTI", 2° libro della serie Romantic Suspense SISTERS, edita Emma Books.


Titolo: CONFLITTI
Serie: #2 Sisters
Autore: Elena Taroni Dardi
Genere: Romantic Suspense
Editore: Emma Books
Prezzo: € 4,99
Uscita:  25 Novembre 2014




Intrigo, doppio gioco e il passato che ritorna: nessuna tregua è concessa, nessun sentimento è al sicuro.

San Diego. Gli agenti FBI, Mariah Kelsey, e CIA, Chad Winters, vengono reclutati all'interno di una task-force che deve fermare il diffondersi di una nuova pericolosissima sostanza. Il fragile legame che Mariah ha ristabilito con la gemella rischia però di compromettere carriera, missione e il sentimento che la lega a Chad.

Parigi. A causa di Nico, Ana e Sam sono in rotta di collisione, gli equilibri costruiti in anni e anni di obiettivi comuni saltano e nell'ombra qualcuno complotta per approfittarne.


Conflitti è il secondo episodio della serie Sisters.




Prologo



Una prigione nel nord del Brasile
L’odore era nauseante. Corpi ammassati, escrementi, urina.
Le sbarre di ferro una volta forse erano verniciate di grigio, i muri invece no, quelli probabilmente erano sempre stati color cemento armato. Adesso erano macchiati di ogni tipo di umore corporale.
Se si guardava attorno, voleva morire. Meglio restare accucciato nell’unico angolo di pavimento non incrostato di sangue.
Deeeng. Deeeng. Deeeng.
Metallo contro metallo. L’unico suono in grado di mettere a tacere il vociare assordante dei relitti umani che gli stavano attorno.
Le guardie sfregavano i manganelli contro le sbarre solo in quattro momenti della giornata: i tre pasti (o presunti tali) e quando chiamavano per le visite.
Anche in quel posto dimenticato da Dio, evidentemente la famiglia contava qualcosa.
Sprofondò ancora di più con la testa tra le ginocchia.
I primi giorni aveva protestato, sbraitando nella sua lingua prima e in inglese poi. Aveva persino cercato di dire qualche parola in portoghese, ma per le guardie era come se non esistesse. Tutti lo guardavano come se fosse parte del muro a cui stava addossato.
Quelli che speravano in una visita si misero allineati, gli altri indietro a guardare, come fossero trasparenti; tutti dovevano stare zitti e sull’attenti. Fece la fatica di alzarsi in piedi ma gli girava la testa: si era dimenticato di bere. Non aveva più voglia di fare nulla, neppure sopravvivere. Per aspettare cosa? La speranza che qualcuno venisse a tirarlo fuori da lì svaniva di giorno in giorno, da tempo ormai aveva smesso di segnare il muro. Si era fermato a 37.
«Marko Kos!»
Sbatté le palpebre incredulo e si guardò attorno. Quando il nome fu strillato di nuovo qualcuno gli diede una spinta e solo per un caso fortuito non andò a schiantarsi contro le sbarre.
La guardia lo guardò male e poi riprese a chiamare altri nomi.
Aveva davvero una visita?
Si mise in fila e seguì docile il corteo di derelitti, una scintilla di speranza gli incendiava il petto.
Quando vide chi era, si fermò indeciso se ridere o piangere, poi una delle guardie gli diede uno spintone e finì dritto dritto tra le braccia di Ana Loszich.
C’era da non riconoscerla, con i capelli fini fermati da alcune mollette, la camicetta a fiori rosa e una gonna a campana blu: sembrava l’essenza stessa dell’innocenza. Tutte le guardie si stavano scambiando occhiate e battutine a fior di labbra.
Lei ne approfittò per mettergli qualcosa nella cinta sdrucita dei pantaloni. «Segui le istruzioni, se vuoi uscire vivo da qui» gli sussurrò, poi sedette sulla sedia di metallo sgangherata.
Marko la imitò. «Io… non capisco» disse, raschiando le parole. Erano troppi giorni che non usava le corde vocali.
«Non serve. Io ti tiro fuori, e tu lavorerai per me.»
«Lavorare? Io… non so…»
«Adesso è presto. Ne parliamo fuori di qui. Segui le istruzioni. Intesi?»
«S-sì… non dovrei stare qui. Questo posto è orribile!»
Se cercava un po’ di comprensione, non ne trovò. Lo sguardo blu era freddo come il mare attorno all’isola di Krk.
«Ho dovuto corrompere tre funzionari affinché restassi qui. Volevano mandarti al carcere di Pedrinhas.»
Non aveva idea di che posto fosse, ma non era sicuro che potesse essere peggiore. Lei si sporse e lui poté sentire di nuovo l’odore di mughetto del suo deodorante.
«Fidati, sarebbe stato molto peggio.»

***

L’uomo era in ginocchio, a terra. Il mento sollevato dal coltello che minacciava di troncargli la giugulare e la canna di una Glock armata con proiettili da 9 mm puntata alla tempia. Tremava e dall’odore che emanava doveva essersela fatta addosso.
«Avevo detto Pedrinhas. Domani.»
Sergeij parlò in croato, e lo sgherro della Glock tradusse.
Nel tentativo di giustificarsi, l’uomo iniziò ad agitarsi convulsamente e la lama premette di più sulla gola, dalla pelle scorticata stillò qualche goccia di sangue. Sergeij fece cenno all’uomo con il coltello di allentare la presa mentre l’altro traduceva i farfugliamenti.
«Dice che ha avuto dei problemi. E che da Pedrinhas è più difficile far evadere qualcuno.»
Sergeij si lasciò sfuggire un grugnito. Quello lo stava fregando. Aveva impiegato tutta la notte ma alla fine era riuscito a risalire al suo conto bancario e quello che ci aveva trovato non gli era piaciuto.
«Sono indeciso se darti una possibilità di conservare la tua miserabile vita o se fottertela subito. Voglio sapere qual è il piano di Ana» esclamòincazzato, e quando l’uomo iniziò di nuovo a piagnucolare che non conosceva Ana diede l’ordine di ucciderlo.
Fece per andarsene, ma l’altro lo implorò piangendo.
«Dice che ti dirà tutto.»
Sergeij si concesse un sorrisetto. Ana credeva di averlo fregato, avrebbe dato qualsiasi cosa pur di vedere la sua espressione nel momento in cui si fosse accorta che era stata fregata a sua volta.
«Arellano» disse il traduttore. «Dice che a pagarlo è stato Keko Martinez Arellano di Tijuana, Messico, e che non ha idea di quale sia il suo piano. Ti prega di farlo vivere.»
Che novità era? Guardò il traduttore. «Tu lo conosci, questo… come cazzo si chiama?»
«Si chiama come te» rispose con strafottenza quello armato di coltello. «Keko è il diminutivo di Sergio.»
Sergeij lo guardò con espressione talmente fredda che lo sgherro si ricompose subito. «No. Non conosco questo Martinez, però so chi sono gli Arellano di Tijuana, anzi… chi erano. Pensavo fossero tutti morti.»


Già il prologo sembra promettere molto bene, voi che dite?
Se volete leggere anche i primi 2 capitoli, cliccate qui sotto!




1



Los Angeles, USA. Cinque settimane dopo
Mariah rientrò in casa e gettò le chiavi nella tazzina sul mobile d’ingresso. Tolse l’impermeabile e lo ripose, si lasciò cadere sul divano malandato e, ancora sovrappensiero, iniziò a slacciare gli scarponcini.
Detestava con tutta se stessa le sedute dalla psicologa del Bureau, ma le sarebbero toccate fino a quando non fosse riuscita a convincerla che nella sua mente non c’era nessuna bomba a orologeria pronta a esplodere a causa del suo passato.
Fingere di non ricordare nulla le era sembrata la cosa più semplice, ma sette settimane di finzione potevano mettere a dura prova chiunque, specie se di fronte si aveva una professionista, e quella donna lo era. Riusciva a scavare così a fondo nella memoria da riuscire ogni volta a far emergere qualche frammento di ricordo: tenerli per sé e inventare qualcos’altro era sempre più difficile.
Grazie a quelle sedute Mariah aveva recuperato preziosi camei del suo rapporto con Ana, ma era solo con lei che voleva discutere del puzzle costituito dai suoi ricordi cancellati.
Prese la sim dedicata alle comunicazioni sicure che Sam le aveva fatto comprare e chiamò il numero che aveva dovuto imparare a memoria.
La risposta fu immediata. «Sorella, lo sai che cazzo di ore sono qui?»
Mariah sorrise, Sam era uno spasso. «Cosa stai mangiando beiba da non avere cinque minuti per me?»
«Un panino vegano.»
«Seeee, e io ci credo!» Mariah rise.
«Würstel e salsa tabasco. Sapevo che mi avresti rotto le palle.»
Mariah ridacchiò. «Dov’è Ana? Riesco a parlarle?»
«È a Lugano. Sta firmando scartoffie. Vedi se ti risponde. Adieu
«Bye bye!»
Qualche secondo e si udì il segnale che la chiamata era stata inoltrata, subito dopo la voce di Ana. C’era da non credere che fossero alle parti opposte dell’emisfero.
«Hola hermana. Que tál?»
«Bien, gracias. Hablamos en español hoy?»
«Sto ripassando. Domani incontro Martinez a Parigi, anche se non ho ancora deciso se userò lo spagnolo.»
Mariah avvertì un brivido lungo la spina dorsale. «Stai attenta e non sottovalutarlo. Ricorda che è un sopravvissuto.»
«Tu come stai?»
Mariah sbuffò. Tipico di Ana spostare il baricentro della conversazione e condurre il gioco a modo suo. Era brava soprattutto a evitare di parlare troppo di sé e dei suoi progetti. D’altra parte non era per quello che l’aveva chiamata. Ormai sapeva che era inutile instaurare un dialogo con la gemella parlando del presente o del futuro.
«Esco adesso dalla strizzacervelli.»
«Cosa?»
«La psicologa del Bureau.»
«Ah, ok.»
«Una volta siamo andate al mare. Mi confermi?»
«Al mare? No. Non credo proprio. Louban al massimo ci consentiva di girare nei boschi attorno alla base.»
«Eppure oggi io ho ricordato con chiarezza. Tu e io, la sabbia e un mare caldo. C’era anche nostra madre. Come al solito non ricordo la sua faccia. Indossava un cappello a tesa larga. Bianco.»

***

Il riferimento al cappello suscitò un fremito profondo dentro Ana. Rivide Zara e la luce cangiante che si rifletteva sulle strade e gli edifici. Sua madre, quella francese, le aveva comprato un cappello per ripararla dai raggi solari e ne aveva preso uno anche per sé.
«L’unico cappello che ricordo è legato a un viaggio che feci con i Moreau.»
Zara, Dubrovnik e Mostar. Suo padre suonava con l’orchestra chiamata a celebrare il decimo anniversario della cacciata dei serbi e del JNA dalla città. I Moreau avevano voluto portarla affinché non dimenticasse le proprie origini ed era già da un anno che avevano sospeso le sedute dalla psicologa che doveva correggere certi suoi comportamenti autolesionisti; avevano deciso che se davvero non voleva dimenticare il passato era meglio lo ricordasse in una dimensione diversa. L’avevano aiutata a cercare informazioni sul luogo dove era stata trovata, l’avevano spinta a tenere un diario con i suoi ricordi e le avevano lasciato decidere se continuare con lo sport che, secondo la psicologa, avrebbe dovuto essere terapeutico. Ana aveva rifiutato di scrivere il diario, però aveva scelto di continuare con la ginnastica ritmica per farli contenti.
Era stato durante il viaggio di ritorno a casa che…
«Eppure, Ana, io mi ricordo di noi che ci litigavamo quel cappello.» La voce di Mariah la richiamò al presente. «Alla fine è caduto in mare e la corrente se l’è portato via.»
Ana non ricordava nulla del genere. Probabilmente era uno dei sogni di Mariah, si rifugiava sempre in quelli quando Louban le separava.
«Non so» insistette. Tra loro c’era il patto non detto che del loro padre biologico e delle sue crudeltà non avrebbero più parlato. «Non ricordo nulla del genere.»
«Non fa niente. Tu come stai?»
«Bene. Niente di rilevante da dire.»
«Nico ti sta sempre alle costole?» le chiese Mariah.
«Ha di nuovo chiamato il tuo uomo?»
«Chad? Da quando ha lasciato il Lodge non l’ho più sentito.»
«Sam lo tiene d’occhio» rispose Ana.
«Ah. E tu glielo lasci fare?»
«Ve bene così. Sam è super partes.»
«Sicura?»
«No. In realtà credo che lo detesti» ridacchiò Ana.
Il suono della sua risata raggiunse alcuni clienti della banca svizzera, che si girarono a guardarla. S’irrigidì tornando seria. Non poteva permettersi di attirare l’attenzione, e quella consapevolezza le calò addosso pesante come una quinta teatrale. Stava impersonando una parte, doveva restare concentrata.
«Ana? Sei ancora lì?»
«Sì.»
«Cosa c’è?»
«Niente.»
«Non è vero. Io lo sento.»
Ana lasciò andare un sospiro, non riusciva a mentire a Mariah. «Non lo so. Non ho tempo. Sono stanca.»
«Lo sai che puoi contare su di me. Posso aiutarti.»
«No, non puoi. La faccenda è andata troppo oltre ed è molto più grande di quello che pensi.»
«Allora raccontami tutto» le mormorò Mariah.
«Non posso. Comunque è tutto sotto controllo.»
Ma è bello sapere che ci sei. Lo pensò soltanto, ma anche se avesse voluto dirlo tre beep in stretta sequenza interruppero la comunicazione.
Sam le aveva detto che accadeva quando saltava il rimpallo dei ponti satellitari necessario affinché la telefonata non venisse né intercettata né registrata.
Non aveva capito però se Sam potesse o meno forzare il sistema e se ascoltava le loro conversazioni.

***

Non capivano un cazzo. Aveva reclutato i migliori smanettoni in circolazione, aveva tentato di insegnare loro tutti i trucchi, ma non c’era verso… non ‘sentivano’ e non ‘vedevano’.
L’hacker aveva lasciato una traccia informatica importante l’ultima volta che gli aveva svuotato i conti bancari, un frammento del programma che gli permetteva di inserirsi ovunque.
«È un vicolo cieco» ribadì uno dei tre ragazzi, quello più audace. «Abbiamo tentato cinque differenti tipi di decriptazione e abbiamo ottenuto cinque muri diversi.»
«È sempre lo stesso loop» ribadì Sergeij. «Se finite in un loop significa che ci siete stati buttati dentro, dovete trovare le stringhe di controllo principale!»
«Abbiamo compilato anche un programma che sondasse tutte le possibilità, ma sta ancora elaborando.»
«Ed elaborerà fintanto che alimenterete il sistema con la corrente elettrica! Se finite in un loop non ne uscite più! Cosa c’è che non è chiaro in questo concetto?»
Si trattava delle basi, dannazione!
Sergeij provò a concentrarsi sulle righe di linguaggio macchina apparse sul monitor, con la coda dell’occhio vedeva che i tre lo guardavano scettici. Il problema era quello, sempre lo stesso: nessuno capiva niente.
Squillò il cellulare proprio mentre gli sembrava di aver intravisto uno schema. Tentò di ignorarlo, ma la suoneria era insistente e uno dei ragazzi gli porse il dispositivo.
«Vaffanculo» berciò Sergeij prendendo il telefono.
«Hola, soy Keko Martinez Arellano





2



Parigi, Francia
La notte appena passata aveva lasciato l’aria umida, la città si svegliava e spandeva puzzo di smog e odore di cucine che inauguravano una nuova giornata.
Il piazzale antistante Notre Dame iniziava a popolarsi dei primi turisti a cui i clochard chiedevano spiccioli per comprarsi la colazione o da bere. Presto la polizia avrebbe fatto un giro e i volti gonfi dai capillari scoppiati si sarebbero spostati altrove trascinandosi dietro la loro misera vita contenuta in sportine di plastica e sacchi di nylon nero.
Qualcuno chiamò chiedendo una foto, Sam si girò e il turista trasalì. A volte infieriva per il solo gusto di farlo, si dimostrava accomodante, sollecitava la macchina fotografica solo per vedere se gliela davano, se si facevano scattare la foto o se adducevano qualche scusa e scappavano via. Nella fattispecie il turista scappò, probabilmente l’aveva guardato con occhi cattivi, acri di ricordi che bruciavano come un ferro rovente piantato nelle viscere.
Di solito se ne stava in casa. Le quattro mura del suo appartamento erano il suo guscio e la sua armatura contro il passato, ma ogni tanto la strada chiamava, allora usciva, ma se ne pentiva subito.
A volte erano gli attacchi di panico; altre volte la rabbia e il dolore prendevano il sopravvento e poteva anche capitare di fare qualcosa di molto stupido come andare a cercare guai.
Quel giorno il guaio si trovava nel giardino stretto tra la Senna e la fiancata sud della cattedrale: era alto e moro, indossava dei jeans neri e la più orribile tra tutte le magliette vendute nei duemila negozi di souvenir di Parigi. C’era da chiedersi se l’aveva proprio scelta o se ne aveva pescata una a caso.
Dario Nicotera, altrimenti detto Nico, era lì tutti i giorni alla stessa ora, dopo aver fatto jogging per mezza Parigi e saccheggiato la prima boulangerie che gli capitava sottomano.
Mangiava guardando i gargoyle. Forse era un modo per riflettere sui suoi prossimi passi; ogni tanto estraeva lo smartphone e scriveva qualcosa. Sam si preoccupava di controllargli il telefono per vedere i progressi che faceva nella ricostruzione dettagliata e minuziosa dell’infanzia e dell’adolescenza di Ana. Scriveva tutto. I nomi delle compagne di classe, dei vicini, dei colleghi dei Moreau, aveva persino contattato i cugini della coppia per sapere perché non avevano preso Ana con loro quando era rimasta orfana e se c’erano rimasti male sapendo che la ragazza aveva ereditato tutto anche se non era stata legalmente adottata. Era riuscito a scoprire cose che persino Ana non ricordava più.
Chiunque avrebbe detto che era ossessionato, e Sam pensava che nell’inseguire quell’ossessione era straordinariamente lucido, meticoloso, persistente e pericoloso.
«Please. Could you take me a photo?»
Nico si riscosse dalla contemplazione del rosone e si guardò un attimo attorno.
Si alzò di scatto dalla sedia di metallo verde e sorrise. Sgranò gli occhi un attimo, prima di riprendersi e rispondere: «Certo. Sì. Naturalment… volevo dire, sure
Ecco, Sam ci avrebbe scommesso la mano con cui maneggiava il mouse che lui non sarebbe scappato. No, lui no, lui sorrideva come un Dio buono che elargiva grazia e fortuna a un postulante.
Sam gli porse lo smartphone in modalità camera e si appoggiò al muretto. Quel sorriso avrebbero dovuto vietarlo per legge. La sensazione di malessere che aveva reso claustrofobico l’appartamento era più forte che mai, intensa e bruciante quasi come il giorno in cui tutto era iniziato.
Dall’espressione dell’italiano Sam colse il momento esatto in cui il cellulare gli vibrò nella tasca dei pantaloni. Lo vide trasalire ed estrarre il telefono guardandolo incredulo, come se l’attacco della melodia hard-rock, e il suo perpetuarsi in toni sempre più alti, appartenesse a una realtà alternativa.
«La mia foto?» gli chiese, tanto per incalzarlo un po’.

***

L’esortazione strappò Nico dallo stato contemplativo in cui si trovava.
Turista, foto… ricordò. Ok, ce la poteva fare.
Inquadrò e scattò per immortalare l’immagine. Ormai a forza di stazionare lì aveva fotografato mezzo mondo.
Consegnò lo smartphone e ricacciò il suo nella tasca dei jeans, ormai focalizzato sui possibili scenari dell’immediato futuro.
Forse, alla fine, piazzare cimici e microtelecamere nell’ultima residenza nota di Ana, prima che l’incidente mortale dei suoi genitori adottivi la privasse di una casa, era stata una buona idea.
Non appena l'aveva fatto, gli era sembrato di aver toccato il fondo e si era ripetuto che non sarebbe servito a niente. Ma invece, a quanto pareva, era servito. La telecamera si era attivata e adesso stava fotografando a nastro chiunque era entrato nell’appartamento. Sperava non fosse la donna delle pulizie, come era già successo una volta.
Ma se non lo era… beh, se non lo era, l’avrebbe scoperto presto, visto che faceva sempre in modo di non essere a più di cinque minuti a piedi da Rue Dante n° 2.

***

Già sulla strada i ricordi l’avevano assalita. Il massiccio portone in ferro e vetro era lo stesso che fino ai dieci anni non riusciva ad aprire da sola: doveva sostarvi davanti finché non arrivava un adulto a farlo per lei. Nell’androne era come se ancora echeggiassero i rimproveri dell’inquilino del primo piano, quando lei e gli altri bambini si divertivano a far cigolare su e giù il vecchio ascensore in stile liberty.
Casa, era intatta. La serratura era oliata e dentro tutto era pulito e in ordine, i massicci arredi di legno profumavano di cera d’api e i pavimenti erano tirati a lucido.
Una volta aperte le persiane a pacchetto, tutto divenne luce proprio come ricordava. Le tende bianche inconsistenti lasciavano entrare il sole e ad Ana sembrò per un attimo che il pavimento di marmo risuonasse di nuovo di musica e risate, le risate di sua madre che in cucina combinava pasticci e la tromba di suo padre che si sentiva forte e chiara anche se si esercitava nel loft dell’attico.
Ana guardò gli scaffali della libreria ricolma di libri, piegati dal peso sopportato per anni e anni ma ancora lì, nonostante tutto.
Solo che adesso non c’erano più le mani amorevoli che una volta al mese li spolveravano tutti. Adesso era un’estranea a farlo, molto ben pagata perché usasse le stesse cure, ma non era la stessa cosa.
L’attenzione non è amore.
Lo sguardo corse all’aplique di vetro colorato che sovrastava la specchiera in ferro battuto. Molto ben mimetizzata, vide una fotocamera… accesa.
Ana frugò nei pacchetti che aveva portato con sé e ne trasse ciò che cercava.
Sorrise.

***

Nico suonò più per scaramanzia che per altro; e quando il portone scattò le pulsazioni aumentarono.
Calma. Un passo alla volta.
Doveva meditare su cosa dire, sia che di sopra vi fosse la donna delle pulizie sia che invece… ma non osava sperarlo.
Però voleva saperlo, subito.
Aggredì i gradini consunti due alla volta e quando giunse all’ultimo piano vide che la porta era aperta. Si impose di andarci piano. Appoggiò il palmo al legno, il pannello cedette scostandosi.
Lei era lì. Appoggiata allo stipite del passaggio che conduceva in sala, in mutandine e reggiseno di seta blu.




L'AUTRICE:
Elena Taroni Dardi ha più di quarant’anni (quanti in più non è significativo), è sposata con un maschio Alpha autentico, ha due gemelli e possiede oltre mille libri, anche se non li ha mai veramente contati. Inventa storie da sempre, ma solo da poco si è convinta a scrivere per pubblicare. Nella vita si occupa di contabilità e organizzazione, ama la storia, segue l’attualità e aspetta con ansia le vacanze per… viaggiare!




Non so voi ma personalmente non vedo l'ora di leggere questo libro e scoprire le sorprese che la nostra Elena ha riservato ai suoi lettori.


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