Anteprima: "AL CENTRO DEL DIPINTO" di Virginia Parisi.





Genere: Commedia romantica 
Editore: Self-Publishing
Pagine: 137
Prezzo ebook: € 2,99
Uscita: 24 Febbraio 2015

Già pubblicato nel 2009 nella collana "Le Carte Veline", editore Domino.






Sinossi:
Elisabeth Lombardi è una donna concreta, indipendente. Ha lavorato anni, per conquistarsi il posto di redattrice della rivista inglese Theme che ora rappresenta un punto saldo nella sua vita. È corretta, capace. E non è una bugiarda.
Eppure si ritrova a mentire, a nascondere la sua identità e a mettere a repentaglio tutto ciò per cui ha così duramente lottato, pur di realizzare una spinosa e complicata intervista e guadagnarsi una promozione. Ed è così che cominciano i guai.
Guai che si trasformano in equivoci quando conosce il vecchio pittore Bartolomeo Sarca, che sembra vedere in lei qualità che non sospettava di avere.
Guai che diventano calamità naturali imbattendosi nel tono indisponente e inquisitore del suo arrogante e affascinante nipote, Lawrence Bristol.
E allora la terra di Cornovaglia, con i suoi paesaggi aspri e isolati, le scogliere a picco su un mare perennemente in tempesta, che dà e toglie con la stessa crudele e temeraria determinazione, produce la sua magia.
Le vecchie leggende di casa Thatcher, le storie di fantasmi che narrano la potenza di un amore immortale che ancora sopravvive dopo millenaria attesa, fanno il resto.
E in maniera imprevista, la stessa percezione che ha di se stessa cambia radicalmente, attraverso la mistica sacralità di un cerchio di pietre, il suo insegnamento di equilibrio e onniscienza che racchiude il senso del tempo, dell’infinito, dell’energia della terra, della memoria di popoli scomparsi e mai dimenticati.
Dalla sofisticata, business-oriented Londra alla selvaggia punta estrema della Cornovaglia, Izzie affronta un viaggio che parte come una sfida, e si trasforma in una scommessa.
Su se stessa. Sul suo futuro. Sulla sua vita.

Presentazione dell'autrice:
Una sera d’estate riapro un vecchio file, una cinquantina di pagine mai finite di una storia che non so nemmeno se è una storia. Il canovaccio è pronto. Da qualche parte. So che non dovrò fare ricerche storiche stavolta, che la voce dei personaggi se n’è rimasta in silenzio per parecchio tempo, in attesa e che la loro storia può evolversi nel giro di qualche pagina.
Un romanzo breve. Un romanzo che potrebbe essere un piacevole intermezzo fra una storia più corposa e l’altra. Una pausa nel mio lavoro creativo e allo stesso tempo una pausa piacevole per me stessa come lettrice. Un libro da borsetta. Un libro da spiaggia, da aprire per rilassarsi, da scrivere per rilassarsi. Un libro da compagnia. Una storia che sia in grado di divertire, esattamente come una commedia al cinema, che inizia e si conclude nel giro di due ore.
Senza rinunciare ad una sintassi adeguata seppur fluida, alle introspezioni psicologiche, alle digressioni che forniscono una sosta nel dipanarsi della vicenda, alle decorazioni formali, alle descrizioni degli ambienti e del contesto. Il gusto per la narrazione non può fare a meno di questi elementi e sebbene il dono della sintesi non sia esattamente nelle mie corde è incredibilmente un duro lavoro di disciplina.
Necessito comunque di ricerche per l’ambientazione, per avere ben chiari usi e costumi del luogo, modi di dire e norme di comportamento. I personaggi ci sono, sono già pronti dietro le quinte, con i loro volti, la loro parte da recitare. Si stiracchiano pigramente, mentre io mi ritrovo tra le mani una frase di Eliot che è come occhio di bue puntato sul palcoscenico.
E’ sintomatico come questa frase sia diventata il fulcro centrale della vicenda, prima ancora che ne avessi coscienza.
Così compaiono i protagonisti principali.
Elisabeth – che ad un certo punto fa Lombardi di cognome – donna in carriera, cocciuta, incline alla menzogna seppur per necessità, poco avvezza ai compromessi ma pronta a venire a patti perfino con il suo peggior nemico pur di vincere una sfida che può determinare il suo futuro come giornalista.
Bartolomeo Sarca, che è stato ispirato da un personaggio che ho avuto la fortuna di conoscere anni addietro, con il suo passato straordinario di uomo e di artista i suoi errori e le sue scelte e la sua solitudine.
Lawrence Bristol, nipote di Bartolomeo, affascinante, arguto, caparbio, poco incline alle romanticherie, incredibilmente raffinato, seccante quanto basta e davvero indimenticabile.
E la famiglia Tatcher con la sua gentilezza e l’affetto incondizionato verso una perfetta sconosciuta.
E poi il cerchio di pietre, con i suoi monoliti che si affacciano sul mare della Cornovaglia, le antiche leggende di vichinghi e amori immortali che rimangono sospesi nel tempo, alla ricerca forse di una seconda possibilità.

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ESTRATTO: capitolo 12
Non era solo la vista eccezionale che si godeva da quell’altezza a mettere i brividi. Né la potenza delle onde, burrascose e ribelli, cavalcate da un vento freddo e pungente in grado di condensare il fiato in piccole “O” di meravigliato rispetto. Aveva smesso di piovere e le nuvole basse si erano addensate in cumuli foschi all’orizzonte. Vi era il sole, da qualche parte, ma gli era stato impedito di mostrarsi e se ne stava quieto, accontentandosi di rimanere all’ombra di un’imminente tempesta.
Se fosse stata in grado di tenere in mano un pennello e di far rimanere al suo posto un foglio e un cavalletto, avrebbe finito per sfidare l’incombente cataclisma, blandendolo con qualche tocco fluido di tempera. Ma per sua sfortuna o fortuna, non era una pittrice, non sapeva nemmeno come amalgamare un colore all’altro senza far sembrare il proprio lavoro il risultato di un momento di pura demenza creativa.
Tuttavia ciò che le sarebbe piaciuto ritrarre, nella sua completezza era il senso del tempo, dell’infinito, dell’energia della terra, della sacralità di popoli dimenticati e scomparsi che avevano lasciato traccia di sé e un chiaro messaggio da decifrare in una struttura di una semplicità e di una potenza tali da restare a corto di parole, quasi annichiliti, certi tuttavia della propria insignificante quotidianità dinanzi ad un simile spettacolo.
Le grandi pietre svettavano maestose verso il cielo fosco, immote e silenziose e tuttavia aveva quasi la sensazione che ognuna di esse avrebbe voluto raccontarle una storia singolare. Renderla partecipe di insegnamenti di equilibrio e onniscienza e condurla in luoghi sconosciuti dove ancora sopravviveva la mano che li aveva costruiti.
Il cottage era soltanto uno spauracchio, un insulso agglomerato di calce e mattoni. Una sorta di intruso voluto da qualcuno che non aveva capito nulla della preziosa eredità racchiusa in quell’antico cerchio di pietre su un massiccio costone di roccia.
Certo era un edificio raffinato e una volta conclusi i lavori di restauro, affreschi e suppellettili l’avrebbero riportato agli antichi fasti, restituendo all’occhio esperto una splendida dimora signorile.
Ma nonostante gli sforzi, sorgendo dinanzi a tanta gloriosa magnificenza avrebbe sempre finito per rimanere una sorta di foruncolo sopra un viso di porcellana.
Certo non avrebbe potuto dirlo ai diretti interessati. Noel perché si era fatto carico di intrattenere Alicia per tutta la giornata, scarrozzandola in lungo e in largo con l’intento di mostrarle chissà quali meraviglie – incluso se stesso – e Lawrence perché non le avrebbe mai permesso di visitare il cantiere né tantomeno l’avrebbe accompagnata fino a Cold Cage di sua spontanea volontà.
Ci aveva pensato Ethel, mettendo il guinzaglio ai bracchi e lasciandolo nelle sue mani e convincendola a infilare sul pullover una delle giacche di tweed di Roland.
Sicché aveva trovato due guide zelanti che sebbene disdegnassero di procedere ad un’andatura da cristiani, l’avevano trascinata con spavalda ostinazione su per la collina, facendole raggiungere a tempo di record la destinazione.
Ora li aveva mollati ad annusare i dintorni. Ethel l’aveva rassicurata in quel senso, perché le bestie conoscevano perfettamente la zona e le aveva fornito un fischietto a cui Roland e Noel li avevano abituati per richiamarli all’ordine.
Così da qualche tempo, se ne stava seduta su una roccia, a rimirare ciò che la collina aveva da offrirle con tanta generosa opulenza.
Comprendeva meglio il piacere di Ethel per la narrazione. Non poteva immaginare che ci fosse qualcosa di vero nella sfortunata storia di Brianna e Victor, né che essendo realmente esistiti stessero sprecando l’eternità a tentare di ritrovarsi, ma sentiva che quel luogo custodiva un fascino a cui era impossibile sottrarsi.
Quando le prime gocce di pioggia presero a cadere si decise a fare ritorno a casa. Tirò su il cappuccio della giacca, infilò le mani in tasca alla ricerca del fischietto e quando lo tirò fuori le scivolò cadendo sull’erba. Quando si rialzò intravide molto più avanti, la figura di un uomo, di spalle.
Se ne stava immobile presso una delle pietre, la più grande, rivolta verso l’ovest. Laddove il sole, se gli fosse stato concesso di cacciare fuori la sua chioma luminosa, sarebbe tramontato.
Era davvero molto alto e ben piantato con spalle ampie e lunghi capelli corvini raccolti in una folta treccia. Indossava stivaloni di pelle nera e pantaloni attillati, di un tessuto che non riusciva a discernere, insieme ad una t-shirt a maniche lunghe, legata in vita da una cintura piuttosto vistosa. Si domandò che ci facesse lì quel tipo, vestito in una maniera così assurda e pensò che in definitiva non erano proprio affari suoi. Oltretutto, vedendolo spostarsi un poco e offrirgli buona parte del suo profilo, le parve addirittura di averlo già incontrato da qualche parte. Non fu esattamente quello il pensiero che la indusse a celare la sua presenza. Ma il grosso spadone che il tale portava sul fianco destro. Come se si trattasse di uno di quei figuranti che sfilavano alle feste medievali.
Elisabeth si stropicciò gli occhi.
Erano due notti che non riposava bene. Quel mattino era andata a dormire alle cinque passate e si era alzata poco dopo le otto, memore del fatto che avrebbe dovuto cominciare a buttar giù una bozza dell’articolo per il giornale. Con il permesso di Ethel aveva utilizzato il laptop dello studio di Lawrence, aveva messo insieme il pezzo e inviato una mail alla sua fida segretaria perché si premurasse di mandare un assegno alla boutique nella quale il giorno addietro aveva fatto acquisti piuttosto costosi.
Melinda le aveva risposto solerte. Non solo, ma in giornata, se si fosse recata all’ufficio postale, avrebbe anche potuto ritirare del denaro contante a nome di Ethel Thatcher, secondo le indicazioni che le aveva dato. La madre di Noel l’avrebbe accompagnata subito dopo pranzo.
Riaprì gli occhi, guardò l’orologio e si rese conto che era passata da un pezzo l’una. Era incredibile. Stava per scatenarsi l’ennesimo temporale, i suoi due ciceroni erano spariti e lei si sarebbe inzuppata fino al midollo prima di raggiungere casa.
Con circospezione osservò di nuovo il cerchio di pietre.
Il tale non c’era più. Frutto della sua insonnia. Si mise il fischietto in bocca e soffiò con vigore, incamminandosi sotto l’acquazzone sempre più violento. I bracchi erano finiti chissà dove e lei pensò fosse il caso di mettersi al riparo.
Il cottage era il posto più vicino e si arrampicò su per la collina, continuando a richiamare i cani con quello stupido aggeggio e a reggersi agli arbusti che le offrivano l’unico sostegno sul terreno già zuppo di pioggia. Arrivò al cantiere e varcato il cancello aperto della recinzione pensò di sgattaiolare all’interno attraverso una delle finestre al piano terra, come aveva fatto qualche ora prima.
In realtà la porta adesso era socchiusa. Quindi non ci pensò due volte a mettersi al riparo in attesa che quel trambusto di fulmini là fuori smettesse di farla sentire così a disagio.
Si era appena appoggiata al battente che qualcosa le si buttò contro la giacca, spingendola con veemenza. Si voltò spaventata beccandosi una leccata appiccicosa sulla mano che aveva alzato per proteggersi.
“Jo, vagabondo di un cane…” la frase morì così, a meno di tre metri da lei nella penombra rischiarata da una torcia tascabile.
“Che diavolo ci fa lei qui?”
Non si poteva certo dire che fosse una frase di benvenuto. Non che si fosse aspettata qualcosa di diverso.
“Cerco un riparo” spiegò Elisabeth con naturalezza. Il bracco di nome Jo seguì il richiamo del padrone e trotterellò verso di lui, lasciando lei nel cono di luce che Lawrence le aveva puntato in faccia.
“Può abbassare quell’arnese?” domandò seccata, riparandosi gli occhi con una mano.
“É stata Ethel, vero?” intuì Lawrence togliendo il guinzaglio al cane. Di lì a un secondo anche l’altra bestia grattò alla porta ed Elisabeth aprì solerte. Il bracco l’annusò con sufficienza e si diresse verso il padrone, pronto a farsi liberare a propria volta.
“Bo, vieni qua” si chinò sull’animale e staccò il guinzaglio “Come sperava di tornare senza di loro? La scorciatoia da Pandora Palace è poco battuta. Si sarebbe persa”.
“Avrei proseguito verso sud, sarei arrivata comunque da qualche parte”.
“Sì, giù dalla scogliera”.
“Si sarebbe liberato di me”.
“Mi accontenterei di farla salire sul primo treno per Londra”.
“Me ne andrò molto presto”.
“Allora quella è la porta”.
Si studiarono con un tale astio che avrebbero finito col mettersi le mani addosso.
Elisabeth strinse i pugni, così arrabbiata e offesa che senza pensarci due volte, riaprì la porta, correndo fuori.
Il primo pomeriggio si era fatto di colpo buio e il temporale ancora più aggressivo. Ci mise qualche secondo a calmarsi, respirando un paio di volte, preda persino di una crisi di pianto.
Si orientò, stringendosi nella giacca non sua e si incamminò oltre la recinzione. Che razza di zoticone. Se la sera prima non fosse arrivato ad interrompere il vecchio Sarca, a quest’ora starebbe davvero viaggiando su un treno, pronta a fare ritorno a Londra con la sua strepitosa intervista.
E invece eccola qui, a vagare in mezzo al temporale con il rischio non solo di prendersi una polmonite ma di perdersi nella boscaglia più fitta. Un fantasma nella nebbia in cerca di Pandora Palace. Le sarebbe piaciuto poter sconvolgere il sonno di Lawrence Bristol, tirargli le coperte di notte, sbattere le porte, fargli dondolare davanti foglietti, aprirgli le finestre in mezzo a un bel temporale e roba simile. Sarebbe uscito di testa e lei avrebbe avuto la sua vendetta.
Pensieri terribili anche se piuttosto soddisfacenti. Purtroppo per lei, nel farli scivolò un paio di volte e l’ultima finì col sedere per terra, tra erba bagnata e fango, inzuppandosi per benino anche i nuovi jeans a cui non aveva fatto in tempo ad affezionarsi. Si era graffiata i palmi e nell’atto di tirarsi in piedi, intravide un movimento nella boscaglia.
Un lampo inatteso illuminò un paio di occhi gialli tra gli arbusti. Un animale? Magari un cane randagio o una volpe. Sentì un ringhio e poi un tintinnio metallico. Cosa poteva essere? Le venne in mente il tale con lo spadone accanto al cerchio di pietre. E gli arbusti dinanzi a lei si mossero.
Un brivido e il cuore a mille, stretto in gola, soverchiarono l’inefficace tentativo di tenere a bada le idee incoerenti che le stavano martellando il cranio. Si fece prendere dal panico. Si rialzò in piedi e cominciò a correre come una scheggia. Non le sembrava nemmeno che quella fosse la strada percorsa con i due bracchi all’andata. Ma non poteva fermarsi. E nel giro di un minuto il terreno sotto i piedi le venne a mancare.


L’autore:
Virginia Parisi nasce nella suggestiva Piazza Armerina e vive da oltre un trentennio tra le belle colline del Monferrato. Sposata, madre di una bimba di quattro anni, si divide tra la famiglia, il lavoro di fotografa e la sua passione per la scrittura.
Come scrittrice ha esordito nel 2003 con il romance storico "Animi Fortitudo”, cui hanno fatto seguito nel 2004 il romanzo storico "La Fiamma della Speranza" e nel 2007 il giallo storico "L'Ottava Pergamena", nel 2009 la commedia sentimentale “Al centro del dipinto”. Nel 2014 torna con un fantasy dal titolo “La Leggenda di Ghelbes Tal” (trovate la nostra recensione qui). “Al centro del dipinto” è la sua ultima opera. 
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1 commento:

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