Questo martedì Teresa Siciliano ci parla dello spinoso rapporto fra autori e lettori. Non sempre una passaggiata, soprattutto quando i lettori si fanno un'idea della storia. Quanto un autore deve cedere e ascoltarli?
L'articolo sul blog!
Il rapporto fra chi scrive e chi legge
non è sempre facile. Innanzitutto l’autore deve fare i conti con la questione
del successo (e del denaro): grandissimi scrittori sono stati quasi totalmente
misconosciuti in vita (ad esempio Stendhal) e altri ammirati ed osannati per
essere, invece, dimenticati subito dopo la morte (e potremmo menzionare
Moravia).
Le cose sono in qualche modo diverse
per quanto riguarda i cosiddetti generi di intrattenimento. E questo vale in
modo particolare per il rosa, il più bistrattato: infatti, se il giallo e la
fantascienza nei loro maggiori esponenti sono ormai entrati a pieno titolo
nella letteratura alta, nessuno si sogna di fare lo stesso col rosa.
Perfino gli addetti ai lavori spesso
non nascondono una smorfia di disprezzo e tempo fa un importante dirigente
editoriale, in un’intervista a Repubblica che non dimenticherò mai, esprimeva una
decisa insofferenza per la presenza e l’influenza del rosa sulle statistiche di
vendita: diceva che non la quantità di letture conta, ma la qualità e che
nessuno potrebbe leggere un romanzo di Gadda in un giorno. Cosa di cui qualcuna
di noi, essendo fan sia del rosa che di Gadda, era già ben consapevole.
Negli ultimi anni mi pare che
addirittura anche le giovani lettrici non solo usino le espressioni “romanzetto
rosa” o “harmony” per liquidare un titolo, ma, salendo per li rami, riversino
pari disprezzo sulla Austen o le Brontë. Del resto molti recensori Amazon hanno
il coraggio di pensare che, se fossero stati loro a pubblicare Guerra e pace o I fratelli Karamazov, li avrebbero scritti molto meglio. E
soprattutto meno mattoni.
In più le scrittrici rosa non possono
sperare nella gloria postuma (sempre che ci sia davvero stato qualche scrittore
a desiderarlo). Fra le giovani nessuna più compra Liala o Willy Dias o Luciana
Peverelli. E perfino noi vecchie appena sappiamo chi era Grazia Deledda, che
pure fu insignita del Nobel: io stessa non ho più letto un suo libro da
decenni, ormai.
Però a livello di contemporanei il
legame fra autori e lettori è sempre molto stretto. Mentre scriveva I misteri di Parigi, Sue era
perseguitato da tutti coloro che gli scrivevano per supplicarlo di non, ripeto
non, concludere l’opera: volevano che non finisse mai. E tutti ricordiamo Conan
Doyle che, odiando a morte il suo Sherlock Holmes, ci provò ad ucciderlo, ma fu
costretto a risuscitarlo dalla furibonda reazione dei suoi ammiratori.
Allo stesso modo sui blog noi
colloquiamo con le nostre amate scrittrici italiane, per “sgridarle” se i loro
romanzi non ci soddisfano del tutto e dare “suggerimenti” sugli eventi futuri nel
corso delle serie. Del resto si sa che lo stesso succede agli sceneggiatori
delle telenovelas sudamericane e delle soap opera statunitensi, che addirittura
commissionano sondaggi fra gli spettatori per decidere certi sviluppi di trama:
forse ricorderete, in proposito, il ritorno di Bobby in Dallas.
Ugualmente potrei elencare le
appassionate discussioni via facebook delle fan Mariani, divise fra quelle che,
ad esempio, avrebbero voluto una tresca fra Antonio e la Petri e chi, come me,
ha evocato i fantasmi di King e di Misery
non deve morire, per avvertire la Masella che la morte di Mariani non è
un’opzione praticabile, anzi neppure concepibile.
Effettivamente le aspettative sono un
problema serio. Già nel rosa vi sono delle strade obbligate: innanzitutto il
lieto fine che è obbligatorio e la necessaria presenza di una o più figure
eroiche. Naturalmente c’è ancora la libertà di opinione e un’autrice può
scrivere quel che le pare, ma sotto pena dell’insuccesso. Inoltre in un caso
simile dovrebbe considerare se sia corretto presentare il proprio romanzo come
un rosa. Anche se, bisogna ammetterlo, ultimamente i confini fra i generi sono
diventati indeterminati. Ma di ciò abbiamo già avuto modo di parlare.
E allora pensiamo al trittico della
Ciuffi sui Lykaon, iniziato con il bellissimo Un cuore nelle tenebre, che all’epoca io recensii definendolo un
fantasy di alto livello. E scrivevo: “L’autrice individua le coordinate
essenziali del mondo dei Lykaon con grande acutezza e sviluppa il filone giallo
con notevole abilità, depistando il lettore in modo alla fine sempre
giustificato e verosimile. Impeccabile il ritmo narrativo. Si legge d’un fiato.
Secondo me, a tutt’oggi il miglior risultato della Ciuffi, nel campo del
paranormale, e senza dubbio uno dei migliori in assoluto.”
Nel secondo volume, Un segno nelle tenebre, elogiavo un romanzo d'avventura di buon livello, ma soprattutto l'approfondimento
della storia dei lykaon, in parte secondo quanto presentato nel primo volume
(per es. l'interclassismo), in parte in modo nuovo, soprattutto per quel che
riguardava l'elemento femminile e il rapporto fra generazioni. E non riuscivo
chiaramente a immaginare dove sarebbe andata a parare la Ciuffi nella
conclusione della saga. Dicevo questo, ma in realtà mi aspettavo che il
crescendo progressista sarebbe continuato e l’autrice si sarebbe inventata
qualcosa di eclatante. Purtroppo questo qualcosa non venne e per la verità
credo che l’autrice non ci avesse mai pensato. Però io, in modo probabilmente
ingiusto, rimasi delusissima e mi lamentai del fatto che venissero abbandonate le istanze femministe e si
tornasse indietro, alle atmosfere campagnole e tradizionaliste, anziché fare almeno
un passo avanti. In questi casi le aspettative personali, a ragione o a torto, compromettono
profondamente l’accettazione e la comprensione di un romanzo.
Altro esempio: pensiamo alla serie dei
Tourangeau di Theresa Melville, che incappò in tutta una serie di passi falsi
(o che tali apparvero a molte lettrici): prima trasformò la protagonista
Cornélie in una traditrice di quello che noi credevamo il protagonista della
serie, mentre poi risultò essere solo il comprimario, poi addirittura in Mai notte più dolce ammazzò uno dopo
l’altro, sia pure nel corso di alcuni decenni, tutti i personaggi. Forse fu
trascinata dall’anima noir di M. Teresa Casella o, più probabilmente, voleva
dare l’idea che la vita non ha un inizio e una fine, ma è un continuo scorrere.
E tuttavia almeno alcune di noi non gliel’hanno ancora perdonata.
Qualcosa di simile è avvenuto alla
Camocardi con la serie delle sciantose. Doveva essere un trittico e all’epoca
del primo volume Chi voglio sei tu (senza
dubbio il migliore, secondo me) noi lettrici ci eravamo innamorate di un personaggio,
Denis, che aveva tratti molto positivi. Ma che cambiò nel corso del tempo, fino
ad assumere il ruolo dello stupido cieco che si fa circuire da una donna
perfida e ingannatrice, invece di impalmare quella cara al nostro cuore (che
comunque si consolava con un altro più intelligente). Bene, a furor di popolo,
cioè di lettrici, la Camocardi è stata indotta a concepire un quarto volume in
cui Denis riacquista la ragione. Certo sono situazioni cui non è possibile
tornare indietro, ma almeno si può trovare un amore più meritevole.
E anche la Formenti è passata per
questo genere di problemi. Quando nel 2012 uscì il bel romanzo Il destino in una stella, non credo che
l’autrice pensasse a dei seguiti e invece l’anno dopo pubblicò lo spin-off Amabile canaglia, che vedeva il cattivo,
o presunto tale, del volume precedente, Calozzi, trasformato in protagonista,
cosa in verità non rara nel rosa, ma infrangeva varie regole del genere. La
storia era imperniata su due sorelle, Amabel, la protagonista, e Pearl, che
subito all’inizio incappava in un terribile equivoco e per questo veniva arrestata
e deportata in America. Con nostra grande delusione di lei non si sapeva più
nulla, mentre intanto si sviluppava la vicenda d’amore fra Amabel e Giovanni,
che però era sposato e ciò rendeva impossibile il matrimonio finale. Per cui i
due si adattavano ad una convivenza, soluzione in verità non rara in ambito
illuministico (basta pensare alla madre di Manzoni), ma che certo per una
lettrice rosa era dura da mandare giù. In questa fase la Formenti aveva progettato
un trittico: il terzo volume, però, non avrebbe avuto Pearl come protagonista,
anche se saremmo state informate della sua sorte, ma una sua figlia, la cui
vicenda si sarebbe svolta in contemporanea con la rivoluzione americana.
Sul blog Mondadori ci furono polemiche
appassionate e non so se a seguito di ciò l’autrice modificò i suoi progetti.
Ed ecco qualche settimana fa il bel racconto gratuito Fino al nostro ultimo respiro, dove, a distanza di cinque anni, un
annullamento permette a Giovanni ed Amabel di regolarizzare la loro situazione,
e poi, soprattutto, soprattutto Una perla
fra le mani, in cui ci viene raccontata la storia di Pearl dalla
deportazione in poi, in un volume ben costruito, spesso emozionante, ma senza
rinunciare al realismo e alla verosimiglianza.
Qui ovviamente si apre una questione
scabrosa: chi scrive deve venire incontro alle esigenze dei propri lettori?
Oppure può tener duro e inseguire il suo concetto di valore e di bello? E
ritagliarsi un suo pubblico, educandolo? Un tema stuzzicante e interessante, ma
forse sarà meglio rimandarlo ad un’altra occasione.
Articolo molto interessante, da lettrice illuminata e profonda conoscitrice del genere. Teresa Siciliano è la memoria storica del romance nostrano. Grazie!
RispondiEliminaCara Teresa, come dici tu, il dilemma è tra l'assecondare le richieste del pubblico o tirare diritto, rischiando l'insuccesso e il probabile bando da future pubblicazioni. Magari si può procedere a piccoli passi, attirando i lettori dalla nostra parte, ma in definitiva io penso che la storia sia mia e spetti a me decidere cosa farne. Quanto alle aspettative, credo che il problema non sia tanto nel deluderle ma nel deluderle... male. Montare un personaggio per una serie di romanzi e poi dedicargli l'ultimo, in cui magari risulti meno affascinante che nei precedenti, con una co-protagonista moscia e non alla sua altezza... ecco, questo io lo chiamo deludente.
RispondiEliminaL'idea dei piccoli passi mi pare buona.
EliminaBell'articolo che solleva una questione delicata e al tempo stesso interessante. Io credo che la parola finale tocchi sempre alla scrittrice, anche perché, a prescindere dalle decisioni, ci sarà sempre una porzione di lettori che sarà deluso o avrebbe voluto che le cose andassero in un altro modo.
RispondiEliminaA questo punto non posso che ripetermi: come sempre, Matesi, hai scritto un articolo molto interessante. E' vero, io ho cercato di accontentare le lettrici scrivendo per intero la storia di Pearl. Tuttavia, non posso negarlo, mentre scrivevo mi piaceva sempre di più. Le mie incertezze erano nate, ovviamente, riguardo a quello che poteva accadere a una ragazza imbarcata su una nave, con uomini volgari e violenti. Ma una volta trovata la soluzione, la più semplice e realistica, non ho più avuto dubbi. Quindi, direi che sono riuscita ad accontentare me stessa e le lettrici che hanno apprezzato questo lavoro. :)
RispondiEliminaEffettivamente la soluzione da te trovata è ottima. Vedi quella analoga in Quo vadis.
EliminaA volte le più semplici sono le migliori. Ne avevo pensata un'altra molto più fantasiosa e originale. Te la dirò in privato, perché, a pensarci ora, mi fa un po' ridere.
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