Recensione: "CONFESSO CHE HO INDAGATO" di Michele Giuttari




Genere: giallo
Editore: Rizzoli
Pagine: 364
Prezzo: € 15.30
Uscita:  12 febbraio 2015








Sinossi:
Pedinare, raccogliere indizi, confrontare le prove. E poi spaccarsi la testa su un caso fino all’alba, quando gli occhi bruciano e la schiena fa male. Non sono scene da thriller, ma pagine appassionate dell’autobiografia di Michele Giuttari, racconto fedele e spietato di un trentennio del nostro Paese e del vero lavoro di un poliziotto: una strada difficile, punteggiata di lotte e momenti bui ma anche di gioie e grandi soddisfazioni. Tutto comincia nel 1978 in Sardegna, tra disamistade e sequestri, per poi arrivare alla Calabria, dove Giuttari ha affinato le sue capacità investigative tra omertà e minacce, ’ndrangheta e rapimenti. Fino al periodo toscano, macchiato del sangue delle vittime del Mostro di Firenze. Sono storie di terrore collettivo, quelle su Pacciani e i “compagni di merende”. Eventi incomprensibili ai quali Giuttari ha provato a dare un senso, a muso duro contro ricostruzioni utilitaristiche e punti di vista talvolta discutibili dello Stato e delle forze dell’ordine; opponendosi alla “pista sarda” e all’ipotesi del serial killer solitario, ripartendo ogni giorno da capo per trovare una logica in un racconto sfilacciato e chiamando in causa personaggi intoccabili, troppo scomodi per un Paese che ha preferito accontentarsi di una mezza verità piuttosto che rompere equilibri di facciata. Ma Giuttari, rigoroso e caparbio, non ha mai smesso di credere negli uomini e nello Stato, e ha scelto di confessare tutto, raccontando la sua storia senza omettere nulla, neanche quei momenti in cui è stata la giustizia a voltare le spalle alla giustizia. Perché la verità, per un bravo poliziotto, ha sempre il diritto di venire a galla.




Leggere il libro di Giuttari, lo ammetto, non è stata una cosa facile.
Il libro racconta la carriera dell’autore nelle forze dell’ordine, dalla Sardegna a Firenze, passando per Napoli e soprattutto Reggio Calabria. Questa narrazione parla di una realtà italiana che forse la mia generazione non conosce, o conosce poco. O perlomeno, io ignoravo quasi totalmente.
I rapimenti in Aspromonte, l’Anonima Sequestri, il Mostro di Firenze, sono parole che mi suonano familiari e che tutti abbiamo sentito almeno una volta. Ma ascoltare dalla viva voce di un testimone d’eccezione il lungo elenco di rapimenti, minacce, attentati, dà un nuovo peso a queste parole.
Gli eventi descritti nel libro precedono la mia età della ragione, e spesso anche la mia nascita e, in più, gli anni Ottanta non si studiano a scuola. Perciò, devo ammettere di aver passato almeno metà del libro attaccata a Google a cercare notizie, riscontro, contesto.
Lo stile narrativo che Giuttari sceglie per questo libro è duro, freddo e scarno. Alcuni capitoli sono solo lunghi elenchi di nomi, numeri ed eventi. Come un lungo rapporto.
Chi ha qualche anno in più probabilmente riesce a completare le lacune ricordando le immagini di quegli anni, i servizi dei Tg, gli appelli in TV, la tensione dell’opinione pubblica e il sollievo quando queste stagioni di rapimenti e di omicidi seriali si sono finalmente spente.
È complicato stabilire se questo libro sia “bello” oppure “brutto”.
Con i suoi pro e i suoi contro è molto “vero”.
Non ci sono fronzoli e certamente non è un libro d’intrattenimento.
Mi ha spaventata e incuriosita e ho imparato qualcosa su una storia italiana che era giusto ieri, ma che siamo abituati a sentire molto distante e astratta, quasi rimossa!
Lo consiglio, se anche voi non ne sapete nulla di anni Settanta e Ottanta e avete voglia di colmare qualche vuoto (e fidatevi: se anche non li vedete, ci sono).







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